ECCO LO STATO PENALE: TI SENTI PIÙ SICURO?


 

Da tempo si sta assistendo al rafforzamento generalizzato del settore penale degli stati, che contempla l’accrescimento dei sistemi di controllo e di incarcerazione, e la criminalizzazione insistente di alcune fasce della popolazione, spesso quelle più marginali. Secondo alcuni, tali trasformazioni risponderebbe al venir meno del precedente criterio di legittimazione statale, che era basato più propriamente sulla qualificazione sociale dello Stato. Tuttavia, le trasformazioni da cui sono investiti oggi gli Stati "occidentali" non sono esclusivamente la risposta ad una corrosione delle basi sociali su cui la legittimità dello Stato si reggeva; ovvero, non è solo questo, ma lo è in parte.


Soprattutto, la modificazione dell’assetto statale, che vede come protagonisti gli Stati Uniti, i paesi dell’Europa occidentale, e tutti quei paesi che prendono gli Usa a modello della propria politica, non è il prodotto finale di una serie di fenomeni inseriti in una catena causale che si sviluppa in maniera lineare. Gli stati contemporanei, nella forma che assumono all’inizio XXI secolo, fanno più probabilmente parte di una fitta rete composta di fenomeni complessi e tra loro interconnessi, che si sviluppano su diversi livelli, e i cui effetti ricadono anche, e inevitabilmente, sull’assetto degli stati, andando ad incidere sulla loro capacità di essere i legittimi sovrani di un determinato territorio, e di essere riconosciuti come tali dalla popolazione che in quel territorio vi abita.

La riconfigurazione dell’assetto statale, in favore di una qualificazione più marcatamente penale che sociale, non può essere considerata semplicemente un modo per perpetuare l’esistenza degli stati e la loro legittimità ad esistere, proprio perché non è semplicemente questo. Lo smantellamento del settore sociale sembra piuttosto il metodo più congeniale allo stato per rispondere alle nuove sfide poste dall’avvento del neoliberalismo e del mercato del lavoro post-fordista, all’interno del quale non trova più posto uno stato di tipo keynesiano, che protegge le fasce più vulnerabili della popolazione e che riduce le disuguaglianze, contrapponendosi quale fattore di solidarietà ai cicli recessivi dell’economia di mercato. L’accentuazione del settore penale si è dimostrata funzionale allo stato per salvaguardare il controllo sul mercato del lavoro nazionale. Esso è stato infatti capace da una parte di mettere in atto una coazione sulle frange più marginali della popolazione per costringerle a fornire forza lavoro malpagata, dequalificata e desocializzata, attraverso la minaccia del carcere; dall’altra parte, è stato capace di recludere, con l’ausilio di (nuovi?) sistemi di controllo, chi si è rifiutato di andare a fornire quella forza lavoro tanto necessaria per il mercato quanto spesso degradante per la persona.

E’ la rete poliziesca, giudiziaria e penitenziaria che costringe gli individui in fondo alla scala sociale ad entrare nel mercato del lavoro post-fordista, rendendo loro sconveniente qualsiasi altra alternativa. Allora, l’incarcerazione diventa forse funzionale alla neutralizzazione di quelli tra loro che, per un motivo o per l’altro, non rientrano nel circuito del lavoro.

L’incarcerazione assolve anche ad una funzione simbolica che conduce alla riaffermazione dell’autorità dello stato, capace di "mettere al fresco" tutti quei "delinquenti" e capace di controllarne le vite; è inoltre utile alla divisione tra cittadini "buoni" e "cattivi", tra cittadini "meritevoli" da premiare, inserire e tenere al sicuro, e cittadini "devianti" da controllare e punire.

Citando Wacquant, "l’espansione penale negli Stati Uniti e nei paesi dell’Europa occidentale è in realtà un vero e proprio progetto politico, un elemento chiave dell’adeguamento dello Stato alle esigenze di sviluppo e consolidamento del neoliberismo". Le trasformazioni dello Stato sono, infatti, secondo questa visione, una risposta alle trasformazioni del mercato.

Ciò è dimostrabile anche storicamente, richiamando alla mente la prospettiva storica della nascita del carcere: le workhouses (vere e proprie case di lavoro), predecessori delle moderne strutture carcerarie, erano state pensate per l’appunto come luogo in cui costringere al lavoro tutti quei soggetti (poveri, mendicanti, homeless) di cui erano piene le strade delle nascenti città industriali, e che venivano a mostrare, nel momento stesso di creazione della fabbrica, tutto il loro potenziale di forza lavoro docile, gratuita e necessaria. Da precisare che tali categorie di poveri erano tanto più facilmente avviabili al lavoro forzato quanto più il loro stato di indigenza era considerato, dall’opinione pubblica (quella del tempo come quella dei giorni nostri), quale semplice prodotto della loro parassitaggine e pigrizia. Cioè quanto più il loro stato di povertà assoluta fosse rimandato ad una responsabilità individuale.

E teniamo fermo questo concetto.

Vi è però una rinnovata utilità dell’apparato penale in questo nuovo sistema caratterizzato da una ritrovata insicurezza del lavoro: esso piega alla disciplina del lavoro salariato tutti i settori delle classi più indigenti e contemporaneamente ne neutralizza gli elementi superflui, accrescendo l’autorità dello stato attraverso un’abile mossa di criminalizzazione della figura del migrante, il quale assurge al ruolo di grande capro espiatorio della paura diffusa e vacua che percorre le strade delle odierne metropoli, così segnate dal tanto citato degrado urbano.

E’ la paura, che circola diffusamente a livello societario, che ha la capacità di riunire l’opinione pubblica intorno alla richiesta di sicurezza (anche se non si sa bene da quale tipo d’insicurezza si chiede protezione). La categoria dei migranti si è rivelata essere un buon soggetto su cui catalizzare la paura, e verso cui indirizzare la richiesta di "protezione": avere un "nemico" su cui catalizzare la propria attenzione rende meno incerti, e il fatto che i migranti costituiscano una minaccia è una congettura ormai parte del "senso comune", riproposta e alimentata dalle retoriche pubbliche e dal circuito mediatico-politico. Che la popolazione migrante sia sovrarappresentata all’interno delle carceri italiane è un dato ormai inconfutabile; che tale percentuale, che si aggira intorno al 38%, sia l’ovvia risposta ad una reale tendenza del migrante a delinquere è una credenza, falsa ma diffusa, tutta da confutare.

Il fatto è che uno stato munito di un ampio apparato repressivo ha la capacità di criminalizzare prima e punire poi gli individui considerati devianti, da una parte presentandoli come la minaccia macchiata di "immoralità" da cui i cittadini "buoni" devono essere protetti; dall’altra, riuscendo a nascondere dietro la loro criminalizzazione quei meccanismi altri che hanno forse la reale funzione di mantenere inalterato uno stato di cose attuale.

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