Pubblichiamo questa interessante riflessione sulla situazione del Tibet e in generale sul governo delle minoranze:

tratto da: www.infoaut.org 

 

|14/15/16 marzo 2008| Le cronache politiche degli ultimi giorni hanno visto un concentrarsi dell’attenzione mondiale sugli altipiani tibetani. I media occidentali hanno dedicato ampio spazio alla ribellione delle popolazioni autoctone e alla conseguente repressione dei loro moti di protesta ad opera del governo centrale sotto la guida del Pcc.

L’entità degli scontri e l’estensione della rivolta sono chiari indici del peso politico e internazionale dell’attuale crisi tibetana. Come tutto quello che accade nel pianeta-Cina, le notizie sono frammentarie e sottoposte a una forte censura. Il governo centrale inizia ad ammettere un certo numero di morti ma è scontro sull’esatta entità della repressione.

Un quadro complesso

Alcuni elementi concorrono però a complessificare il quadro della semplificatoria narrazione dei "nostri" media, oltre la fabula del "lupo cattivo cinese e del cappuccetto rosso tibetano" (senza nulla togliere al diritto all’autodeterminazione del popolo tibetano e la gravità della repressione militare).
Gli scontri partono subito dopo il tentativo da parte cinese di impedire lo svolgimento di una pacifica marcia di monaci in direzione Pechino per utilizzare politicamente la vetrina offerta alla causa tibetana dall’attuale edizione delle Olimpiadi.
Le forme della protesta sono subito molto radicali e assumono tendenze che ricordano molto da vicino i riots metropolitani dove si sovrappongono le linee della classe e del colore.
Fin dall’invasione il governo centrale cinese ha proceduto ad una politica di sinizzazione (dell’etnia Han) a danno degli autoctoni. Gli effetti della politica di popolamento hanno però subito drastiche accelerazioni negli ultimi 15 anni di politica economica improntata allo sviluppo capitalistico a grandi tappe: costruzione di interi quartieri a maggioranza cinese, ineguale sviluppo economico-sociale tra le 2 etnie, grandi opere infrastruturali, modernizzazione urbanistica, disequilibrio demografico.
A questo livello la vecchia questione nazionale incontra gli esiti non controllabili dello sviluppo capitalistico e della modernità in salsa cinese.
Attestare un’analisi al solo livello "politico-culturale" non basta.
I giovani sono il motore della rivolta e rinnegano ampiamente i metodi non-violenti del loro capo spirituale. Le dichiarazioni del Dalai Lama rendono evidente la difficoltà di gestione politica di una protesta che eccede il protocollo del pacifismo lamaista.

Convergenze imperiali


Un dato sembra però sfuggire ai media di casa nostra. Se le dinamiche sembrano ricordare molto da vicino gli eventi birmani di qualche mese fa – e alcuni elementi fanno presagire un esito molto simile – le speranze "democratiche" in un qualche coalizione occidentalista contro la Cina non potranno darsi.
Gli Stati Uniti hanno da poco depennato la Cina dalla "top-ten" degli stati lesivi dei diritti umani e sembrano ben poco intenzionati a far marcia indietro, consci del doppio filo finanziario che li lega a Pechino (il governo cinese è infatti titolare di più del 50 % dei buoni del tesoro americani e gli Stati Uniti sono tra i principali investitori esteri).
Anche questo è conseguenza dell’attuale as della globalizzazione capitalista.
Più in generale le entità statauali dell’Occidente sembrano soprattutto inclini a una condanna delle forme della repressione, con un generico invito alla "moderazione". Nonostante un abbozzato giuoco delle parti (D’Alema demanda al’Unione Europea la responsabilità di una decisione in merito) le potenze che contano (in primis la Francia) rendono noto che di boicottare i Giochi Olimpici proprio non se ne parla.
Le manifestazioni che si sono svolte in mezzo mondo sono state ovunque represse, contenute o impedite, tanto nei territori dell’ex-nemico indiano quanto nell’avamposto occidentale in terra d’Asia, l’Australia.

 

Due questioni nazionali (nel quadro geopolitico)

 

Permangono,nella Cina odierna dall’alto tasso di sviluppo capitalistico, due questioni nazionali irrisolte: una nel sud montagnoso tibeto-lamaista, l’altra nelle occidentali regioni dello Xijn Yang, abitate dalle irrequiete popolazioni uigure di fede islamica (e politicamente inclini all’islamismo). Due limes instabili nell’odierna configurazione statuale post-maoista. Due lontane provincie poco incline all’obbedienza e ostili alla dicotomia sinizzazione-sviluppo imposta da Pechino. Due territori facilmente preda di quei "conflitti di faglia", trasversali e trans-nazionali, tipici effetti di feedback della globalizzazione capitalista. Due faglie che, nonostante la convergenza di comuni interessi di tenuta sistemica, poterebbero in ogni momento divenire utili e facili pedine della competizione inter-imperialista.

Cina: uno sviluppo impetuoso, una governance difficile

Se gli eventi tibetani possono dirci qualcosa dell’epoca che stiamo vivendo, questa va letta tra le righe dell’evidenza. L’odierna crisi tibetana ci dice assai di più dell’impossibilità di governare tutte le conseguenze e le contraddizioni di uno sviluppo capitalistico cui l’élite politico-dirigenziale cinese dedica da tempo le proprie energie migliori.

Stiamo parlando di un paese in cui si sta concentrando il più grosso eseprimento politico-sociale che la storia ricordi: l’applicazione di una forma inedita di capitalismo che brucia in due decenni i livelli d’intensità di sviluppo che l’Occidente ha metabolizzato in 2 secoli (e spesso a carico delle restanti popolazioni del pianeta!).
Il tutto dentro un territorio abitabile ben più ristretto e con numeri di popolazione molto più alti.

 

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